Prima le parole, poi le idee, infine le armi. Quando, il 22 luglio 2011, Anders Behring Breivik uccise 77 persone e ne ferì più di 300 in Norvegia, molte e molti parlarono di un gesto folle, isolato. Ma, a distanza di anni, il suo manifesto ideologico appare meno come il delirio di un singolo e più come l’anticipazione di un clima culturale e politico che oggi attraversa l’Europa e non solo: un clima in cui l’estrema destra guadagna consenso, modella il linguaggio pubblico e normalizza concetti che un tempo erano indicibili.
Breivik, trentaduenne norvegese dichiaratamente di estrema destra e cristiano, compì due attentati coordinati. Il primo fu un’autobomba vicino agli uffici del primo ministro laburista Jens Stoltenberg, che causò la morte di 8 persone. Mentre soccorsi, forze dell’ordine e media affluivano nel centro di Oslo, Breivik si diresse verso l’isola di Utøya, dove si svolgeva il campo estivo della gioventù del Partito Laburista. Lì aprì il fuoco su ragazze e ragazzi di età compresa tra 14 e 25 anni, uccidendo 69 persone, tra cui due adulti che organizzavano l’evento.
Durante il processo, si dichiarò “non colpevole”, sostenendo di aver agito per “autodifesa”. Ma autodifesa da cosa?
Poco prima degli attentati, aveva diffuso un documento di oltre 1.500 pagine, frutto di nove anni di scrittura, in cui esponeva teorie complottiste e islamofobe. Si definiva parte di un’inesistente “organizzazione transnazionale” contro quella che chiamava “colonizzazione musulmana dell’Europa”, abbracciando la teoria del complotto dell’“Eurabia”, secondo cui il continente sarebbe destinato a diventare a maggioranza musulmana. Per lui, fermare l’“islamizzazione” significava eliminare prima di tutto le politiche multiculturali. In Norvegia, accusava direttamente il Partito Laburista.
Nel manifesto, scriveva che “è meglio uccidere troppi che troppo pochi” e includeva vere e proprie istruzioni operative per compiere attentati. Elencava partiti e gruppi politici europei divisi tra “alleati” e “nemici”. In Italia, tra i primi, citava Lega Nord (oggi Lega per Salvini Premier), Alleanza Nazionale (oggi confluita in Fratelli d’Italia) e Forza Nuova; tra i secondi, il Partito Democratico.
I temi centrali del testo – “sostituzione etnica”, revisionismo storico, islamofobia, “remigrazione” forzata, misoginia, odio verso le persone LGBTQIA+, opposizione al cosiddetto “politicamente corretto” – sono gli stessi che oggi ricorrono nel dibattito politico e mediatico, spesso sdoganati e rilanciati in forme apparentemente più “accettabili”.
Breivik non è stato un incidente della storia, ma un prodotto del nostro tempo: un figlio di un’Europa in cui idee xenofobe, complottiste e autoritarie trovano sempre più spazio nel discorso pubblico e perfino nelle istituzioni. Negli ultimi anni, si è assistito a una progressiva normalizzazione dei fondamenti ideologici dell’estrema destra, trattati come semplici “opinioni” legittime, anche quando negano diritti e dignità a intere comunità.
E i suoi emuli non sono mancati. Dal suprematista bianco Brenton Tarrant, che nel 2019 in Nuova Zelanda uccise 51 persone in due moschee trasmettendo la strage in diretta streaming, al killer di Buffalo del 2022, che uccise 10 persone afroamericane in un supermercato, fino all’attentatore di Halle in Germania nel 2019, che tentò di colpire una sinagoga durante Yom Kippur, molti hanno citato o ripreso idee, retoriche e “manuali” ispirati anche da Breivik.
Come ha detto una sopravvissuta di Utøya: “Quelle opinioni, quelle teorie del complotto, quell’odio, oggi sono più forti di quanto lo fossero dieci anni fa. È importante parlarne, perché è l’unico modo per impedire che accada di nuovo.”
È facile pensare a Breivik come a un “mostro” isolato. Più difficile è riconoscere che ha agito in un clima che, in parte, come società abbiamo contribuito a creare o tollerare. Le parole contano. Il silenzio, pure. E mentre certi discorsi si normalizzano, dovremmo chiederci: dove tracciamo il confine tra dissenso e disumanizzazione?